domenica 15 aprile 2018

Recensione dell'album "BLITZ" di Eugenio Finardi



Dopo un terribile 1977, anno vitale, generoso e geniale ma altrettanto pericoloso, tragico e maledetto, nel quale avvennero episodi terribili e profetici quale fu l’assalto al palco sul quale, all’interno dell’Università di Roma (occupata) stava tenendo un discorso Luciano Lama, segretario della CGIL, è il 1978 ad essere una sorta di spartiacque sociale, politico, artistico. Arriva l’album “Blitz”, con in copertina l’immagine di una mela senza richiami all’artista (una sola foto, ma nel retro di copertina). Nelle note ci si accorge che quasi tutti i musicisti presenti nei primi tre album non ci sono più (salvo Lucio Fabbri con il suo violino e Claudio Pascoli in veste di arrangiatore dei fiati). Ora ad accompagnare Finardi è il gruppo de “I Crisalide”, con il compianto Stefano Cerri al basso, Mauro Spina alla batteria, Luciano Ninzatti alla chitarra, Ernesto Vitolo al piano elettrico, Maurizio Preti alle percussioni. Un ensemble di ottimi musicisti che entra subito in sintonia con l’artista milanese e con l’impegnativo compito di sostituire musicisti di livello quali Walter Calloni, Hugh Bullen, Ares Tavolazzi, Patrizio Fariselli, Paolo Tofani, Alberto Camerini. Insomma, non proprio gli ultimi arrivati. Quando esce l’album la cappa di piombo che grava sul Paese pare essere molto pesante ma lo sarà ancor di più a partire dal 16 Marzo, con l’agguato di Via Fani e l’inizio della tragedia dei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro e del Paese. Prigionia che, ancora, in un certo senso, non è ancora terminata. Ma questa è un'altra storia…     
Ci sono canzoni che le riconosci dalla prima nota, dal primo approccio, dal primo alitare nell’etere. Così comeMusica ribelleha un incipit ritmico che nessuno mai ha saputo eguagliare in oltre quarant’anni, così “Extraterrestre” è immediatamente riconoscibile come il suono dello shofar quando inizia lo Shabbath…il giro di basso ed il suono liquido del piano elettrico sono come due amanti che non possono stare separati tra loro. I fiati ed il basso si intrecciano e cuciono una trama sonora di fitto spessore che non dà un attimo di tregua e che rende possibile seguire le liriche della canzone senza perdere mai il filo del racconto. Il giro di basso, a metà canzone, è uno dei passaggi memorabili sia dell’album che di tutta la discografia dell’artista milanese. Una canzone particolare, questa, che potrebbe avere molte chiavi di lettura sia politiche che esistenziali. E’ la lettura di un mondo e di un tempo che richiede di vedere all’orizzonte nuovi mondi perché quello frequentato, abitato, vissuto non è sufficientemente adeguato, anzi, è asfissiante, pericoloso, instabile, impossibile da redimere. Ecco allora il bisogno di andare, di evadere, di fuggire su mondi, livelli, attività, atmosfere, dimensioni diverse. Ed in questa parola, “diverse”, ciascuno può metterci ciò che ritiene maggiormente adeguato al proprio vissuto. Ma la storia non si cambia con la fuga, mettendo una distanza tra sé ed i problemi della vita. Ciò che è importante è avere coscienza di se stessi, della realtà, della verità delle cose (oggi ambito da frequentare con ancora più fatica di un tempo…). “Extraterrestre, portami voglio una stella che sia tutta mia, extraterrestre, vienimi a cercare, voglio un pianeta su cui ricominciare”. Questa è la ricerca di mondo personale in cui nascondersi, dove rinchiudersi, dal quale evitare di avere rapporti con il passato e con la vita reale. Un mondo comodo nel quale a nessuno dispiacerebbe andare…Ma anche quando un nuovo pianeta fosse diventato la nuova casa, rimarrebbe sempre quella del ripiego e della rinuncia, del nascondimento e della fuga. E, probabilmente “dopo un po’ di tempo la sua sicurezza comincia a dare segni di incertezza, si sente crescere dentro l’amarezza perché adesso che il suo scopo è stato realizzato si sente ancora vuoto, si accorge che in lui niente è cambiato”. Già perché non c’è termine alla fuga da se stessi, qualunque sia il nuovo mondo, in qualunque, specie e dimensione, si andrebbe a vivere. La nuova esperienza porta ad una nuova consapevolezza e grazie a questa, per la cosiddetta sindrome di Ulisse (che, ovviamente, probabilmente non esiste…), la coscienza manifesta la necessità di ritornare sulla via di casa per tornare a vivere nei luoghi rifiutati ed abbandonati perché non si può sfuggire da se stessi e per cambiare la storia e la realtà bisogna affrontarsi, risolversi e, poi, guardare alla vita con occhi nuovi e pieni di speranza. “Extraterrestre portami via, voglio tornare indietro a casa mia. Extraterrestre non mi abbandonare voglio tornare per ricominciare…”. Un grande brano, suonato in maniera mirabile e con intuizioni musicali di grande spessore che hanno generato una canzone ancora oggi gradevole, riconosciuta, cercata ai concerti, resa classica da tutti gli estimatori di Finardi.         
        
Intro di piano e voce, soffusa, delicata…“Come un animale” è una morbida ballata dove viene messa “in piazza” una sorta di “debolezza” esistenziale che è alla ricerca della propria dimensione, fisica e carnale, per dimenticare il mondo che sta all’esterno delle proprie mura domestiche “Stanotte voglio lasciarmi guidare dall’istinto, voglio riuscire a liberarmi di tutto ciò che ho dentro. Sono stanco di pensare, non voglio un ruolo da recitare, stasera voglio soltanto fare l’amore come un animale”. Il desiderio è quello di liberarsi delle tensioni e delle paure che il mondo propone/impone. E‘ la ricerca della salvezza nell’amore fisico, nella carnalità della vita e del rapporto affettivo; la ricerca della “salvezza” nella persona che si ama e grazie alla quale si ritrova se stessi nella più intima dimensione. E’ la ricerca del sé attraverso il desiderio che si sublima nella perfezione del rapporto fisico, esclusivo, escludente. In questo brano emerge l’aspetto di abbassare la guardia e di ritrovarsi nella dinamica di chi sente bisogno di riappropriarsi di una umanità sempre più depressa e repressa. “Ti darò tutto ciò che vuoi, se avessi tutto lo sai te lo darei. Da oggi i mei sogni sono i tuoi, ma non lasciarmi mai” è il senso profondo di un brano pieno di tenerezza che racconta il bisogno di superare le proprie malinconiche solitudini. Una sorta di sguardo verso la casa e l’amore visti come baluardo al nulla, come unica difesa nei confronti di un mondo che, quasi sempre, non è amico…

Il ritmo honky tonk, brillante e pieno di swing è l’incipit di “Drop out rock”, con il piano ed i fiati che fanno roteare le note intorno al microfono di Finardi che canta nel suo inglese impeccabile. Un suono pieno di forza e di sonorità U.S.A. per un testo che richiama al bisogno di darsi una mossa, con l’invito a lasciar perder il college e tutto quanto ad esso collegato ma rendersi subito autonomi nella realtà della vita. E’ una sorta di rigetto degli stili di vita americani (e Finardi ha ovvio ed ampio titolo per parlare degli Stati Uniti…) studiando e facendo il possibile per laurearsi, trovare un lavoro, “farsi una posizione”, essere un anello della grande catena del presunto sogno americano. “Non perdere le opportunità, questa è la mia filosofia…” questo il suggello di un brano brillante e pieno di vita che suggerisce di mantenere la giusta autonomia rispetto alle strade preparate, agli stili di vita già pronti, all’ineluttabilità di regole scritte da altri. Ribellatevi! Questo è il senso di quello che vuole trasmettere l’artista, qui più americano che in altre occasioni. 
   
Affettosi manifesta con un ritmo dinamico dove il piano elettrico ricama note su note per affiancare la cavalcata del basso e della batteria. Tre volte nella canzone viene richiamato ciò che piace (e non piace) al protagonista della canzone che, a prima vista/ascolto parrebbe essere molto simile al suo autore. Intenso il suono del sax che si incunea tra piano e sezione ritmica dando un tocco di piccola magia evocativa. Una canzone che è in perfetta linea con quei tempi ma ad ascoltarla e “leggerla” con attenzione ci si rende conto di quanto sia attuale. Perché l’animo umano è sempre attuale, è sempre alle prese con la realtà che, pur diventando tecnologicamente sempre più complessa, si trova costantemente a fare i conti con un animo umano che non è mutato di molto sia in termini di desideri che di rifiuti. Allora ben venga dire che “Mi piace mangiare, ridere e bere, prendere dalla vita quello che ha da dare…”; “Mi piace pensare e analizzare scegliere una musica con cui giocare…”; “Mi piace guardare e fotografare cogliere un’immagine da fissare”. Sono sguardi sulla vita, sul quotidiano, sul desiderio di costruire una vita anche attraverso piccoli piaceri e desideri. Cose semplici che, però, fanno parte del quotidiano. Ed, al contempo, è sempre bene ricordare che “Non mi piacciono le leggi ed i regolamenti…tutto quello che non serve a niente altro che a controllare la gente…”; “Non mi piacciono i martiri né i profeti…tutta gente che ha paura di fare e si permette anche di criticare…”; “Non mi piace chi mi dice di portare pazienza…di chi sta dietro alla sua fede e non dubita mai di ciò che crede..”.  Ma alla fine la morale della dicotomia tra il “mi piace/non mi piace” è che tutto rimane all’interno di un passaggio che recita che “se dal futuro voglio avere dell’affetto, devo imparare a vivere il presente con rispetto…”. Spettacolare il lavoro di Stefano Cerri (che ci ha lasciato troppo presto) al basso elettrico. Un lavoro come fosse uno Jaco Pastorius italiano, senza che questa opinione debba essere identificata come una inutile iperbole.         

Percussioni e suono caraibico sono le note che aprono “Cuba”, con profumi calypso e dolci atmosfere che si propagano ad accompagnare liriche pensierose che raccontano il momento delicato anche dal punto esistenziale di chi aveva “investito” emotivamente e politicamente su un mondo nuovo, diverso, alternativo a quello occidentale anche se poi, come sempre quello che accade “è solo un gioco dell’economia”. Finardi è un prestigiatore delle parole e usa le rime come un giocoliere fa volare gli oggetti in aria raccogliendole al volo, sorprendendoti sempre per la sua innata abilità poetica. La voce, ben impostata, racconta di una sorta di delusione per quello che sono i sogni infranti. Il suono del sax è delicato e morbido mentre le parole che ricordano “che viviamo in un momento di riflusso e ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso, che tutto quel cantare sul cambiare la situazione non sia stato che un sogno o un’illusione”. Il piano elettrico è soffice e ricama le note insieme al sax senza che nessuno dei due strumenti sovrasti l’altro. La riflessione che sorge dalle liriche è impietosa anche se però, la resa non è all’orizzonte perché se è vero che “è normale che ci si sia rotti i coglioni di passare la vita in dibattiti e riunioni e che invece si cerchi di trovare nella pratica un sistema per lottare”. Si richiama alla mente le verbosità assurde di tanti leaderini che hanno parlato più di sé che della realtà. Ma, al contempo, è anche una riflessione su un momento storico dove molti di coloro che si erano impegnati in politica e che vedevano in Cuba o nella Cina di Mao (ma eravamo già alla resa dei conti nei confronti della Banda dei Quattro…) dei fari del socialismo e della libertà, iniziavano a porsi domande perché se era vero che il personale era anche politico era altrettanto vero che il riflusso (come raccontava una storica ed iconica vignetta di Altan apparsa su “Panorama”) era ormai entrato nella vita di molti. Ma se lo spazio tra i sogni e le illusioni è spesso breve, grande rimane il desiderio di migliorare il mondo. Con gli strumenti di cui si è “padroni” come la musica e la poesia…Coraggio, certamente ci voleva molto coraggio a scrivere un testo apparentemente leggero ma, invece, profondamente politico il cui impatto la poetica di Finardi, come sempre, è riuscito a dissimulare per non correre il rischio di diventare dei verbosi e ingombranti maitres a penser di dubbio gusto e costrutto… 

Il piano elettrico, il violino e la sezione ritmica aprono le danze di “Op.29 in Do Maggiore”, un brano rock che ci riporta alle sonorità degli album precedenti con un suono elettrico a sottolineare lo spirito “ribellistico” delle liriche. Il brano è il racconto “cronachistico” di una storia minima generazionale che il testo richiama come fosse un articolo di un quotidiano. Ma è la musica che accompagna le parole a farla da padrone, con il piano elettrico e la sezione ritmica che procedono in maniera elegante, ma ficcante, costruendo un climax sonoro di grande spessore, manifestando la bravura tecnica dei musicisti del gruppo de “I Crisalide” che dimostrano ampiamente di non essere stati una scelta di ripiego rispetto ai blasonati musicisti che hanno supportato l’artista milanese negli album precedenti. Il brano racconta la storia di Robin che “si sta per laureare e intanto fa di tutto per trovare da lavorareMa sembra che per lui non ci sia niente da fare e comincia a sentirsi sempre più insicuro come gli stessero rubando la voglia del futuro…”. Un testo che iniziava così, quarant’anni fa, ci poteva stare…erano i tempi…ma anche oggi la situazione è la stessa. No, anzi, è peggiorata…E poi “senza soldi ci si sente chiusi in gabbia…sto perdendo tempo, è inutile aspettare…e se voglio una cosa veramente, tanto vale che me la prenda…”. Rubare, affermarsi, non aspettare, lottare anche con le armi “improprie” del furto…e da lì arriva il finale, amaro…“la pula l’ha blindato e adesso è a San Vittore. Ma alla fine non mi va di giudicare…dicendo che in fondo era nato criminale…”. Una storia minima, si diceva, una storia di probabile periferia ma, anche, una storia plausibile, allora come oggi. Purtroppo…

E arriviamo a “Northampton, Genn. ‘78”. Questa canzone, forse in pochi l’avevano notato o, tutt’oggi, l’hanno capito, è un capolavoro. In 2 minuti e 10 secondi Finardi, che all’epoca aveva solo ventisei, anni racconta in maniera poetica e profonda, accompagnato da una musica che assomiglia ad una sorta di vento cosmico, il rapporto con suo padre. Ma non solo questo è il tema della canzone ma, probabilmente, è del rapporto tra generazioni differenti che si parla. Di un padre che, probabilmente, non riusciva a comprendere le dinamiche di un figlio che era immerso in una realtà, come quella di quegli anni, impegnativa e spiazzante. Di un padre facente parte di una generazione che aveva visto la guerra, che aveva avuto a che fare con “un prima ed un dopo” della storia. Un padre che, grazie all’incontro su un piroscafo con un professore di Princeton che tornava in America dopo un viaggio in Europa, ebbe modo di incontrare Albert Einstein nella sua abitazione di New York (ed in seguito ad una festa) perché la moglie dello scienziato era interessata a conoscere la moda che, in quei giorni (1935), “imperava” a Berlino, città nella quale, per lavoro, aveva soggiornato il papà di Finardi.  Insomma, si trattava di parlare del vecchio mondo e del nuovo mondo che si incontravano/scontravano senza che i protagonisti riuscissero a trovare le parole giuste per comunicarsi l’affetto reciproco. Ma alla fine emerge l’intuizione…si cresce e si cambia, si osserva il mondo da un'altra prospettiva, ci si accorge che la vita ti porta esattamente nella dimensione e nella dinamica di vita di chi pensavi non ti capisse o, peggio, fosse “il nemico”. La genialità della canzone è che riesce a condensare, in pochi istanti, un rapporto tra generazioni che, da scontro, si trasforma in condivisione di un ruolo, della scoperta di un affetto vero, profondo, gratuito. “Oggi ho conosciuto mio padre, adesso credo di avere capito…” in fondo significa mettere a nudo la scoperta del sé, accorgersi che i muri sono soprattutto interiori. Grande è lo stupore della consapevolezza che arriva quando “ho capito che quando lui soffriva per un figlio che non capiva, non era di vergogna o di delusione ma solo che mi voleva bene…”. Ma la maturità di uno sguardo libero fa comprendere “che paura non essere più adolescente…” ma poi bisogna andare avanti e crescere perché “la teoria della libertà nella pratica è responsabilità…”. E da ciò si arriva alla consapevolezza e, quindi, “Adesso sento il bisogno di organizzarmi la vita, di mettere ordine nei miei pensieri”. Dal giovane alla scalata verso il cielo si passa all’uomo che si interroga sul proprio futuro con “La sensazione che sia finito un ciclo e che un altro stia per cominciare, di essere pronto ad essere il padre del figlio che ora può arrivare”. Un affresco affettivo straordinario, vero, profondo, ineguagliato. Quando la poesia si immerge nella realtà, come in questo caso, il risultato è davvero inarrivabile.  
  
Dalla dolcezza delle liriche e delle note, dall’intimo degli affetti si ritorna “sulla strada”, si riprende la via della trincea. “Guerra lampo” si avvale di un attacco grintoso con la sezione ritmica ben in fase e la chitarra elettrica ed l’organo hammond a generare e sostenere un suono caldo e pastoso, potente e “progressive”. Un suono mutuato dalle origini da rocker di Finardi. Un brano da palco che recita una storia in cui viene chiesto di prendere posizione, di non essere solo uno spettatore della vita ma di farsi carico di intervenire nelle “cose del mondo”. C’è un invito forte sottolineato, anche, dal suono prodotto in sottofondo quasi fosse il passaggio di un aereo da combattimento, che ribadisce quanto sia importante e necessario scatenare una “guerra lampo alle false illusioni…alle vecchie istituzioni, a tutte le fedi e a tutte le religioni…”; “Guerra lampo al mondo della cultura…ai tagliati fuori, ai cantastorie e ai professori.”; “Guerra lampo all’alienazione a chi vuol vivere nell’emarginazione”. Una guerra lampo (un “Blitz”, per capirci) che rimetta le cose a posto per evitare di tirare la vita a campare subendo quello che altri propongono/impongono perché alla fine è opportuno avere consapevolezza che “E’ venuto il momento di prendere posizione, non si può più vivere fuori dalla situazione”. I suoni sono particolarmente originali e rendono bene l’idea delle intenzioni delle liriche di un brano…da combattimento…
Blitz è iniziato con un una sorta di viaggio interstellare e termina con il rullo di tamburi di una guerra. Ma i messaggi sono di pace, di ricerca dlela propria consapevolezza, del desiderio di capire e capirsi. Ma i tempi non sono ancora maturi per una riflessione serena e scevra da pregiudizi. Quello che l’album racconta, comunque, è la capacità di Finardi di tenere alta la qualità delle liriche, proseguendo nei racconti di vita e generazionali iniziati con “Non gettate alcun oggetto dai finestrini” ed inondando i solchi dell’album di ottima musica suonata da splendidi musicisti con la voglia di dimostrare la loro bravura e la loro voglia di assecondare le intuizioni artistiche del loro “capo banda”. Anno difficile il 1978. Ma anche al 1979 non mancherà niente.   


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